venerdì 29 agosto 2008

Abdulasay internet cafè

Kissy dockyard è un quartiere alla periferia est di Freetown, stretto tra la superstrada di accesso alla città e il porto.
Si tratta di una delle zone più popolate, è qui che si sono stabiliti gli sfollati durante la guerra; quasi nessuno ha fatto ritorno a casa e così sono spuntate come funghi case e baracchette di ogni sorta, grazie alla superstrada la vita del quartiere è molto dinamica: un continuo mercato che si estende per chilometri e chilometri.
Una di queste baracchette in legno e lamiera è l'Abdulsay internet cafè, da dove scrivo ora.
Si tratta del retrobottega di un negozio di varie merci come spesso accade qui: cellulari, cemento, birra o lucchetti, un enorme bazar di dieci metri quadrati.
Per raggiungere l'internet cafè vero e proprio bisogna infilarsi fra il muro e l'enorme generatore incaricato di supplire ai continui black-out che oscurano Freetown; lì, in una stanzetta di 3 metri per 5 dalle pareti rosa shocking sono stipati cinque computer (di cui due irrimediabilmente rotti) e almeno quindici persone, un ventilatore ronza immenso dal soffitto (fortunatamente non esausto)
Sulla mia tastiera i tasti sembrano tutti ben funzionanti tranne...la chiocciolina (ottimo visto che la principale ragione della mia tappa qui era controllare la mail...) Un quarto d'ora di connessione costa 1000 leoni, circa 15 centesimi mezz'ora 1500, il prezzo di un'ora di connessione non è specificato, probabilmente sono l'unico qui a sforare i canonici 30 minuti, Forse è per questo motivo che il proprietario appollaiato sulla sua scrivania continua a guardarmi sorridendo felice?

giovedì 28 agosto 2008

Zanzare

Ci sono suoni che ci portiamo addosso volenti o nolenti come il colore della pelle o il nostro cognome.
Per tutti i poveri disgraziati nati come me nella distesa piatta lambita dal Po uno di questi inevitabili suoni è il ronzio della zanzara.
Per quanto sia fastidioso (il ronzio e l’insetto stesso) non possiamo negare di essere un poco affezionati a questo rumore che ci ricorda l’estate: interminabili serate davanti a un bicchiere di lambrusco, nottate in un campo di erba medica a caccia di stelle cadenti, l’odore del grano appena battuto, il rumore sadico di quei terribili neon celesti elettrificati sopravvissuti agli anni ottanta, il canto ossessivo dei grilli, il fresco della sera sulla pelle, passeggiate, biciclette, concerti all’aperto, le lucciole “che una volta ce n’eran tante e adesso non se ne vedon più “, lune piene, lune mezze, lune nuove eccetera eccetera eccetera.
tutta questa poesia spicciola in un ronzio insulso di pochi decibel.
Eppure qui a duecento chilometri dall’equatore quello stesso ronzio ci rimanda alla mente concetti diversissimi e inquietanti: malaria, brividi, febbre, plasmodio, chinino, deliri, meflochina, sudori freddi, morte…
Nel buio della mia stanzetta una zanzara vola tranquilla in attesa di vampirarmi com’è suo diritto-dovere, situazione abituale ma non qui; vittima suscettibile di tanti racconti e reportages terroristici perdo subito il sonno, accendo la mia candela e mi preparo all’attacco.
Il nemico è invisibile, opto dunque per le armi chimiche: un verdissimo zampirone dalla forma ancestrale e dall’aroma inconfondibile.
Sarà l’effetto placebo di quest’odore o qualche additivo psicotropo che si spande nell’aria ma ora posso rimettermi a letto tranquillo, senza più curarmi del maledetto ronzio.
Al mattino dell’orgogliosa spirale non resta che una montagnola di mozziconi untuosi; la notte è passata e nessuna puntura; gli effetti sui miei polmoni però sono ancora tutti da verificare…..

Romarong

C’era un tempo in cui i portoghesi erano i padroni della terra, dai lidi di oporto e lisbona partivano vascelli pronti ad esplorare i più remoti confini del mondo, spingendosi oltre le temutissime colonne d’ercole.
Su uno di queste navi viaggiava Pedro da Cintra quando per primo scorse le montagne della baia di Freetown.
Non si conosce molto di quella spedizione avvenuta negli stessi anni in cui Colombo affrontava l’Atlantico né ci sono giunte notizie certe sull’esploratore; forse in una qualche città del Portogallo una strada porta il suo nome.
Siamo soliti immaginare gli esploratori come personaggi eroici e leggendari pronti a lanciarsi oltre le frontiere dell’ignoto e con lo sguardo sempre alla ricerca di nuovi orizzonti, ma Pedro da Cintra doveva essere diverso, per lo meno non così temerario come il nostro Vittorio Bottego che da anni veglia in versione bronzea (ma ancora per poco a quanto si dice…) sull’umanità variegata e sugli anatroccoli del piazzale della stazione.
Se Bottego infatti risalì i fiumi etiopici fermato solo dalla morte il buon Pedro giunge a toccare le ripide montagne della baia ricoperte di foreste ma appena sceso dalla scialuppa, forse in cerca di acqua dolce scambia il mormorio dei tuoni con il ruggito di enormi leoni famelici, se ne fugge sulla sua barchetta dove disegna una piccola mappa dei luoghi e battezza il luogo Sierra Leone.
Certo quel giorno di 500 anni fa doveva essere Agosto e i tuoni non dovevano essere molto diversi da quelli che squarciano la notte torrida e umidissima di Freetown.
Forse è solo grazie a Pedro da Cintra se oggi mi trovo qui, di certo grazie a Pedro mi è toccato spiegare a circa cinquecento persone che no, in Sierra Leone di leoni non se ne trovano e soprattutto grazie a Pedro ogni bambino che incrocio mi chiama “Apoto” : (che in teoria si scrive “AnPorto”)Uomo bianco, dal momento che qui i primi bianchi a farsi vedere furono Pedro e i suoi amici portoghesi.
Nella lingua del posto invece questo luogo era detto Romarong: la riva dei lamenti perché su queste spiagge venivano trascinati dalla corrente i corpi di tutti coloro che erano annegati a causa delle piene travolgenti del fiume Rokell che proprio in questa baia sfocia nell’oceano.
La riva dei lamenti, Ma quali lamenti? Le grida delle vedove e degli orfani in attesa sulla spiaggia o i singhiozzi disperati delle anime degli annegati rimasti senza sepoltura?
“Les morts ne sont pas morts” e forse fra questa sterminata distesa di mangrovie e lamiere troverò qualcuno in grado di darmi una risposta….

22-08-08 Scalo Tecnico


Aeroporto di Bruxelles, imparo con gioia che il mio volo stavolta farà scalo a Dakar e scopro con ancora più gioia di essere nel posto vicino al finestrino, appena dietro l’ala sinistra dell’aereo; non so bene il perché ma l’idea di poter vedere la città anche se solo dall’alto mi rende molto, molto felice…

La mia felicità è appena turbata alla partenza quando a causa della mia posizione privilegiata posso vedere che un angolino della lamiera di copertura dell’ala dell’aereo è leggermente staccato, fortunatamente è in una posizione coperta e una volta chiusa l’ala il maledetto lamierino scompare permettendomi di dormire tranquillo e rimpinzarmi con incoscienza delle orribili insalatine insapori che servono per il pranzo in economy class.

Passano le ore (cinque? Sei?Sette?) e Inizia l’atterraggio, Dakar dall’alto è splendida e brulicante di vita e di colori, in un cimitero riesco a vedere un corteo di persone assiepate dietro un carro funebre, sarà di cattivo auspicio?

Forse, dato che una volta fermi sulla pista ributto l’occhio sul famigerato lamierino che ora si è staccato molto di più e sporge per circa trenta centimetri lasciando scoperti dei cavi o qualcosa di simile…

Da bravo cittadino (e da ipocondriaco del volo maybe) avverto la hostess che avverte lo steward che avverte il comandante che è un belga di due metri e dieci con sguardo bovino il quale si siede al mio fianco e osserva in silenzio, è un sollievo sentire che il suo fiato (anch’esso bovino) per lo meno non puzza di alcool.

Con una amorevole pacca sulla spalla, che non dimenticherò facilmente, mi ringrazia e mi assicura che risolverà il problema, i passeggeri mi guardano come se fossi l’eroe della domenica, un momento di gloria non lo si nega a nessuno…

Sopraggiungono in tempi ragionevolmente brevi a bordo di un piccolo furgone due tecnici avvolti in giubbini arancioni identici a quello che tengo nel cruscotto della mia macchina. il primo si dirige verso il comandante con aria seriosa e inizia ad indicare l’ala gesticolando, mentre il secondo punta deciso verso la ossigenatissima hostess con cui si fermerà a ridere e scherzare fino alla fine dell’operazione.

Il tecnico serio intanto si dà da fare: bisogna raggiungere la cima dell’ala e in pochi secondi è già riuscito a impadronirsi di un montacarichi per imbarcare i bagagli, lo parcheggia a fianco dell’aereo e si avvia verso il furgone per prendere la borsa degli attrezzi.

La “borsa degli attrezzi” consiste in un marsupio di quelli che andavano di moda qui tanti anni fa, di uno splendido colore lilla e laccetto giallo, dentro, a quanto posso vedere dal finestrino, c’è spazio anche per il suo personale pacchetto di sigarette.

Dopo pochi secondi il suo piano d’azione è chiaro a tutti: staccare la parte svolazzante e (spero) sostituirla.

L’impresa è più ostica del previsto…il pezzo distaccato risulta essere di una lamiera resistentissima che non vuol lasciarsi tagliare dagli attrezzi specialissimi del tecnico (un cutter e una forbice) breve istante di riflessione del tipo che armeggia con la sua ricetrasmittente; un paio di minuti più tardi giunge un secondo furgone con l’attrezzo giusto per l’occasione: un enorme martello da muratore.

Dopo una serie interminabile di martellate sui flaps dell’ala anche la lamiera belga, notoriamente resistente si spezza fra le mani del nostro tecnico che scende felice del suo lavoro e balza sul secondo furgoncino mentre l’altro autista continua a provarci con la hostess.

Dopo poco eccolo di ritorno con il pezzo di ricambio e il solito marsupio, il pezzo però non mi sembra quello giusto: dev’essere una lamiera metallica ma invece che un foglio piatto è di forma cilindrica (??) scopro presto con una lieve inquietudine che si tratta di una sorta di domo pack, tipo quello che si usa per impacchettare il cibo; il fatto che sia adesivo mi rincuora un po: già temevo di veder spuntare dalla leggendaria borsina un rotolo di scotch o colla vinavil…

A questo punto è un gioco da ragazzi, per non sbagliare ne applica una quantità enorme, risultato: la nostra ala prima bianca e scintillante è diventata un patchwork astratto di toppe color alluminio; un perfetto aereo africano; il tecnico ripone tutto, l’autista saluta a malincuore la sua preda strappandole due baci sulla guancia e dopo poco si decolla di nuovo.

Non so se sia merito delle toppe, del pilota, o del clima ma il temuto atterraggio a Freetown è di gran lunga il migliore che mi sia mai capitato di fare…