mercoledì 17 settembre 2008

L'11 Settembre di Kroo Bay

11 Settembre, Kroo bay è come ogni giorno caotica rassegnata e leggera, bambini giocano fra le baracche, altri più grandicelli camminano compiti con un secchio sulla testa o rovistano fra i rifiuti in riva al fiume, alcune ragazze si lavano ridendo in uno dei pochi rubinetti che arrivano fin qui, qualche tuono rompe l’aria e le gocce iniziano a cadere fitte, uno degli ultimi colpi di coda della stagione delle piogge che sta quasi per terminare
In pochi minuti tutto si trasforma in tragedia, il fiume trascina a valle montagne di rifiuti che bloccano il piccolo ponte e si infila sulla strada, sopraelevata di mezzo metro rispetto al terreno, cascate d’acqua riempono il dislivello in pochi istanti formando un enorme lago che si insinua nei sentieri che portano alla baraccopoli con una velocità impressionante.
Sulla strada continuano a passare mezzi con l’acqua che copre le ruote, toyota dell’unicef o di tante NGO blasonate carichi di funzionari distratti che si guardano attorno svogliatamente.
Nel punto dove mi trovo l’acqua supera ormai il metro, Un vecchio frigorifero viene improvvisato come scialuppa di salvataggio per portare alcune donne anziane sulla strada dove l’acqua è alta solo trenta o quaranta centimetri.
Madri piangono disperate, non riescono più trovare i loro bambini, un gruppo di ragazze emerge dall’acqua gridando, la loro casa è stata spazzata via dall’impeto del fiume
I conducenti di omalanke Posizionano i loro carretti in mezzo alla strada, prima del ponte in modo da impedire alle auto di passare, I ragazzi del quartiere si tuffano lasciandosi trasportare dalla corrente per tornare poco dopo con un bambino sulle spalle, una cesta piena di povere cose, una gallina o una pecora.
Nessun poliziotto, nessun pompiere,nessuna ambulanza, kroo bay non esiste, la sua gente lo sa e sa che si deve arrangiare, la pioggià smetterà, l’acqua scorrerà via e riprenderà la vita di sempre.
E’quasi buio quando il livello della piena inizia a scendere, il traffico è impazzito, ma sulla Siaka Stevens Street nemmeno un’auto: la strada è bloccata da militari, in lontananza un convoglio si avvicina, un ministro o qualche altro pezzo grosso torna nella sua villa per la cena.
E nel buio della mia stanzetta non posso far altro che pensare a chi ha perso casa, a chi sta tentando di dormire avvolto in panni bagnati, a chi ancora cerca un figlio, un amico, un parente che forse non ritroverà.
E penso al sorriso del ragazzo che mi allungava uno ad uno i bambini da mettere in salvo “Thanky White man, dis eve iu do big chop…” Grazie bianco, stasera ti toccherà fare una grossa cena…
Sbagliava, il ragazzo di Kroo bay: non son riuscito a toccare cibo.
Diceva bene, il ragazzo di Kroo bay: eccomi qui, sdraiato su un comodo letto nella mia stanzetta asciutta e ben chiusa mentre la stessa pioggia continua a cadere sulle lamiere del tetto e sui corpi infreddoliti di chi non ha più un riparo… quanta, quanta amara e saggia verità nascosta nelle sue parole…….

KROO BAY NON ESISTE

Kroo bay è probabilmente la più grande delle tante baraccopoli che cingono Freetown, nessuno potrà mai dire con esattezza il numero di persone che vi abitano: ogni giorno nuove persone si trasferiscono nel quartiere, altri lo lasciano per un po, alcuni per sempre, altri ancora muoiono prima di raggiungere l’ospedale pubblico che è lontano solo trecento o quattrocento metri ma che non è gratuito e le cure costano care, spesso troppo care per chi abita qui.
Il quartiere, un dedalo di vicoli larghi pochi centimetri che si attorcigliano fra case di fango e pan-body, è situato alla foce di un piccolo fiume chiamato Alligator river; poco prima del mare l’Alligator si congiunge con un altro torrentello così che Kroo bay è suddivisa in tre comunità ben separate dai corsi d’acqua.
Alcuni sacchi di sabbia cercano di arginare le piene del fiume, tutto intorno, ogni strada, ogni casa brulica di vita, in piccole cucine comunitarie si frigge del pesce appena pescato dagli uomini che raggiungono il mare aperto su malandate barche a remi, le venditrici di kerosene passano gridando per le strade, abili sarti preparano vestiti con le loro singer a pedale, bambini scalzi giocano a rincorrersi lungo i rigagnoli delle fogne a cielo aperto che raggiungono quella che qui chiamano “the beach”, la spiaggia, un centinaio di metri di rifiuti di ogni sorta lambiti dalle onde del mare.
Dall’alto la visuale è impressionante: una distesa sterminata di lamiere, migliaia di case di pochi metri quadrati in ognuna delle quali vivono dalle cinque alle venti persone eppure…..
Eppure Kroo bay non esiste: sulle mappe ufficiali è segnata la strada, quattro o cinque case intorno e una enorme distesa bianca con una scritta nel mezzo: Mud, fango…. Questa gente è fango, le loro vite sono fango, nient’altro che fango e una macchia troppo bianca sulla mappa di Freetown.



mercoledì 10 settembre 2008

Susan bay




Susan bay doveva essere un piccolo paradiso quando Freetown non era altro che un piccolo villaggio di schiavi liberati, la foce di un piccolo torrente che si getta nel mare fra due promontori coperti di palme e verdi alberi di mango, oggi una distesa di lamiere arrugginite arriva a lambire il mare, cento, o forse duecentomila persone ammassate in un area di meno di un kilometro quadrato, la densità di un quartiere di tokyo dove i palazzi hanno trenta piani.
E’ per questo che l’unica cosa a cui riesco a pensare mentre scendo la ripida scala di pietra che porta alla baraccopoli è l’ingresso dell’inferno di Dante.
Non ci sono strade a Susan bay, solo un labirinto di minuscoli spazi fra una baracca e l’altra, il quartiere, come Venezia galleggia sul mare ma invece che su pali di cedri del libano si poggia su cumuli di rifiuti.
Le ultime pan-body, come chiamano qui le case in lamiera e teli di plastica si affacciano sul mare, o meglio, si affaccerebbero sul mare se una montagna di rifiuti di quattro o cinque metri non ne impedisse la vista.
Li chiamano i moli, sono i nuovi appezzamenti strappati al mare, sono costituiti da grandi gabbie di legno in cui vengono ammassati sempre nuovi rifiuti, lì attraccano le grandi barche con cui gli abitanti sono soliti trasportare carbone, legno, frutta e ortaggi da vendere nei mercati di Freetown, lì sopra giocano frotte di bambini, lì pascolano placidi alcuni maiali.
Tutto il quartiere, la sua economia, la sua vita sociale, le sue stesse fondamenta poggiano sui rifiuti e sono i cumuli di rifiuti che impediscono alle mareggiate e alle alte maree di inondare le case.
alcuni uomini scaricano sacchi di riso da una barca, Dei bambini giocano con un pallone di stracci, due donne ridono pettinandosi a vicenda, Forse questo è il luogo peggiore che io abbia mai incontrato, forse questo è il luogo più vitale e gioiosamente controverso che io abbia mai incontrato…

martedì 9 settembre 2008

Ballotsha

L’uomo era davvero enorme come me l’avevano descritto, alto forse due metri, vestito con uno splendido smoking bianco dai bottoni dorati, un panama di feltro nero fra le mani coperte da guanti di pizzo bianco.
Nella stanza appena ridipinta illuminata da un tubo al neon tre donne piangevano sommesse, un ventilatore non bastava a scacciare nugoli di mosche che si posavano dappertutto, un’altra donna, vestita di scuro era entrata con un recipiente di vetro pieno di unguenti profumati che con la punta delle dita spargeva a piccole gocce su tutto il corpo e sui rivestimenti in stoffa della bara.
Al di là della porta, nel cortile, centinaia di persone ballavano e bevevano in suo onore, su un grande fuoco si arrostivano spiedini di carne per tutti i presenti, a turno qualcuno saliva su una sedia e con un microfono gracchiante decantava le virtù del grande uomo appena scomparso.
In mezzo alla folla, su una fila di sedie stavano i figli, lo sguardo assente, intontiti dal fragore vorticoso che li circondava, più in disparte un cerchio di uomini intonava litanie e preghiere a chissà quale divinità tribale per onorare il capo appena scomparso.
Lo chiamavano ballotsha, leader di una società segreta tradizionale,fervente musulmano e direttore della scuola islamica, Un giorno un missionario cattolico lo convinse a convertirsi, gli parlò così bene che uscì di corsa da casa sua per infilarsi nella prima chiesa a pregare e chiedere il battesimo, peccato che la chiesa fosse Protestante.
Fu così che ballotsha diventò Battista.
Il giorno dopo, nella parte di foresta riservata ai battisti la fossa era enorme, quindici uomini portavano la bara seguiti dalla banda di ottoni nelle sue scolorite uniformi coloniali, le donne svenivano, gridavano, si gettavano a terra, un fiume di gente continuava ad accalcarsi, il pastore gridava salmi sulle teste dei presenti dalla cima di un mucchio di terra rossa, poco più in là dei bambini giocavano a saltare dai cumuli delle tombe più recenti…. la vita e la morte…….

lunedì 1 settembre 2008

OLD WHARF, Wellington, Freetown




Burocracy

Il Youy building è un immenso palazzone bianco di dieci piani nella parte ovest di Freetown, al suo interno sono dislocati tutti i vari ministeri e i loro uffici di competenza.
Fu fatto costruire da Siaka Stevens fra gli anni 70 e 80 in modo che il dittatore potesse controllare meglio i movimenti del suo entourage.
L’aspetto dell’edificio è imponente, anche se ricorda più un’ospedale che un centro di potere, mi stupisce non poco il fatto che al cancello d’ingresso non vi siano controlli: ognuno è libero di entrare, compresa una folta rappresentanza di venditrici e di mendicanti.
Ad ogni piano corrisponde un ministero, visto che devo incontrare il ministro del Land Planning al terzo piano preferisco evitare l’ascensore e prendere le scale; mi aspettavo interni sfarzosi, in realtà tutto ha un’aspetto spoglio, triste e fatiscente, i muri bicolori, i pavimenti in marmiglia e gli arredi spartani lo rendono piuttosto simile a una scuola superiore.
Dopo un’attesa interminabile in una stanza completamente vuota se si eccettuano tre panche di legno veniamo invitati a entrare in un ufficio affollato di gente; alcuni seduti altri addirittura sdraiati, chi mangia un piatto di riso chi conversa amabilmente, in fondo, dietro un’enorme scrivania piena di fogli un grasso uomo di mezza età avvolto in uno splendido abito africano ci invita a farci avanti.
Dopo avergli spiegato le mie richieste sfoggia un sorriso contagioso e solare mi ringrazia ma è desolato nel comunicarmi che ho sbagliato ufficio; gentilmente mi indica dove trovare la persona a cui rivolgermi.
da questo momento inizia un continuo deja vu: la scena suddetta si ripete circa sei-sette volte, ufficio stipato della più varia gente (parenti?compaesani?scrocconi?)scrivania, calorosa accoglienza e amabile scaricabarile verso un altro luogo.
Attraverso corridoi in cui si susseguono armadi stipati di scartoffie dall’aspetto antichissimo, tonnellate di documenti, decreti, leggi e gabelle che nessuno potrà e saprà mai ritrovare.
Dopo circa due ore e vari chilometri di corridoio percorsi raggiungiamo il luogo che cercavo: National department of town planning; sette o otto impiegati stanno disegnando su enormi lucidi con riga e squadra; mi perdo nel rimpiangere i bei tempi pre-tecnologici, mi sveglia uno dei soliti funzionari: l’incaricato non c’è, ripassi Lunedì o, meglio, Martedì…ha ha ha

venerdì 29 agosto 2008

Abdulasay internet cafè

Kissy dockyard è un quartiere alla periferia est di Freetown, stretto tra la superstrada di accesso alla città e il porto.
Si tratta di una delle zone più popolate, è qui che si sono stabiliti gli sfollati durante la guerra; quasi nessuno ha fatto ritorno a casa e così sono spuntate come funghi case e baracchette di ogni sorta, grazie alla superstrada la vita del quartiere è molto dinamica: un continuo mercato che si estende per chilometri e chilometri.
Una di queste baracchette in legno e lamiera è l'Abdulsay internet cafè, da dove scrivo ora.
Si tratta del retrobottega di un negozio di varie merci come spesso accade qui: cellulari, cemento, birra o lucchetti, un enorme bazar di dieci metri quadrati.
Per raggiungere l'internet cafè vero e proprio bisogna infilarsi fra il muro e l'enorme generatore incaricato di supplire ai continui black-out che oscurano Freetown; lì, in una stanzetta di 3 metri per 5 dalle pareti rosa shocking sono stipati cinque computer (di cui due irrimediabilmente rotti) e almeno quindici persone, un ventilatore ronza immenso dal soffitto (fortunatamente non esausto)
Sulla mia tastiera i tasti sembrano tutti ben funzionanti tranne...la chiocciolina (ottimo visto che la principale ragione della mia tappa qui era controllare la mail...) Un quarto d'ora di connessione costa 1000 leoni, circa 15 centesimi mezz'ora 1500, il prezzo di un'ora di connessione non è specificato, probabilmente sono l'unico qui a sforare i canonici 30 minuti, Forse è per questo motivo che il proprietario appollaiato sulla sua scrivania continua a guardarmi sorridendo felice?

giovedì 28 agosto 2008

Zanzare

Ci sono suoni che ci portiamo addosso volenti o nolenti come il colore della pelle o il nostro cognome.
Per tutti i poveri disgraziati nati come me nella distesa piatta lambita dal Po uno di questi inevitabili suoni è il ronzio della zanzara.
Per quanto sia fastidioso (il ronzio e l’insetto stesso) non possiamo negare di essere un poco affezionati a questo rumore che ci ricorda l’estate: interminabili serate davanti a un bicchiere di lambrusco, nottate in un campo di erba medica a caccia di stelle cadenti, l’odore del grano appena battuto, il rumore sadico di quei terribili neon celesti elettrificati sopravvissuti agli anni ottanta, il canto ossessivo dei grilli, il fresco della sera sulla pelle, passeggiate, biciclette, concerti all’aperto, le lucciole “che una volta ce n’eran tante e adesso non se ne vedon più “, lune piene, lune mezze, lune nuove eccetera eccetera eccetera.
tutta questa poesia spicciola in un ronzio insulso di pochi decibel.
Eppure qui a duecento chilometri dall’equatore quello stesso ronzio ci rimanda alla mente concetti diversissimi e inquietanti: malaria, brividi, febbre, plasmodio, chinino, deliri, meflochina, sudori freddi, morte…
Nel buio della mia stanzetta una zanzara vola tranquilla in attesa di vampirarmi com’è suo diritto-dovere, situazione abituale ma non qui; vittima suscettibile di tanti racconti e reportages terroristici perdo subito il sonno, accendo la mia candela e mi preparo all’attacco.
Il nemico è invisibile, opto dunque per le armi chimiche: un verdissimo zampirone dalla forma ancestrale e dall’aroma inconfondibile.
Sarà l’effetto placebo di quest’odore o qualche additivo psicotropo che si spande nell’aria ma ora posso rimettermi a letto tranquillo, senza più curarmi del maledetto ronzio.
Al mattino dell’orgogliosa spirale non resta che una montagnola di mozziconi untuosi; la notte è passata e nessuna puntura; gli effetti sui miei polmoni però sono ancora tutti da verificare…..

Romarong

C’era un tempo in cui i portoghesi erano i padroni della terra, dai lidi di oporto e lisbona partivano vascelli pronti ad esplorare i più remoti confini del mondo, spingendosi oltre le temutissime colonne d’ercole.
Su uno di queste navi viaggiava Pedro da Cintra quando per primo scorse le montagne della baia di Freetown.
Non si conosce molto di quella spedizione avvenuta negli stessi anni in cui Colombo affrontava l’Atlantico né ci sono giunte notizie certe sull’esploratore; forse in una qualche città del Portogallo una strada porta il suo nome.
Siamo soliti immaginare gli esploratori come personaggi eroici e leggendari pronti a lanciarsi oltre le frontiere dell’ignoto e con lo sguardo sempre alla ricerca di nuovi orizzonti, ma Pedro da Cintra doveva essere diverso, per lo meno non così temerario come il nostro Vittorio Bottego che da anni veglia in versione bronzea (ma ancora per poco a quanto si dice…) sull’umanità variegata e sugli anatroccoli del piazzale della stazione.
Se Bottego infatti risalì i fiumi etiopici fermato solo dalla morte il buon Pedro giunge a toccare le ripide montagne della baia ricoperte di foreste ma appena sceso dalla scialuppa, forse in cerca di acqua dolce scambia il mormorio dei tuoni con il ruggito di enormi leoni famelici, se ne fugge sulla sua barchetta dove disegna una piccola mappa dei luoghi e battezza il luogo Sierra Leone.
Certo quel giorno di 500 anni fa doveva essere Agosto e i tuoni non dovevano essere molto diversi da quelli che squarciano la notte torrida e umidissima di Freetown.
Forse è solo grazie a Pedro da Cintra se oggi mi trovo qui, di certo grazie a Pedro mi è toccato spiegare a circa cinquecento persone che no, in Sierra Leone di leoni non se ne trovano e soprattutto grazie a Pedro ogni bambino che incrocio mi chiama “Apoto” : (che in teoria si scrive “AnPorto”)Uomo bianco, dal momento che qui i primi bianchi a farsi vedere furono Pedro e i suoi amici portoghesi.
Nella lingua del posto invece questo luogo era detto Romarong: la riva dei lamenti perché su queste spiagge venivano trascinati dalla corrente i corpi di tutti coloro che erano annegati a causa delle piene travolgenti del fiume Rokell che proprio in questa baia sfocia nell’oceano.
La riva dei lamenti, Ma quali lamenti? Le grida delle vedove e degli orfani in attesa sulla spiaggia o i singhiozzi disperati delle anime degli annegati rimasti senza sepoltura?
“Les morts ne sont pas morts” e forse fra questa sterminata distesa di mangrovie e lamiere troverò qualcuno in grado di darmi una risposta….

22-08-08 Scalo Tecnico


Aeroporto di Bruxelles, imparo con gioia che il mio volo stavolta farà scalo a Dakar e scopro con ancora più gioia di essere nel posto vicino al finestrino, appena dietro l’ala sinistra dell’aereo; non so bene il perché ma l’idea di poter vedere la città anche se solo dall’alto mi rende molto, molto felice…

La mia felicità è appena turbata alla partenza quando a causa della mia posizione privilegiata posso vedere che un angolino della lamiera di copertura dell’ala dell’aereo è leggermente staccato, fortunatamente è in una posizione coperta e una volta chiusa l’ala il maledetto lamierino scompare permettendomi di dormire tranquillo e rimpinzarmi con incoscienza delle orribili insalatine insapori che servono per il pranzo in economy class.

Passano le ore (cinque? Sei?Sette?) e Inizia l’atterraggio, Dakar dall’alto è splendida e brulicante di vita e di colori, in un cimitero riesco a vedere un corteo di persone assiepate dietro un carro funebre, sarà di cattivo auspicio?

Forse, dato che una volta fermi sulla pista ributto l’occhio sul famigerato lamierino che ora si è staccato molto di più e sporge per circa trenta centimetri lasciando scoperti dei cavi o qualcosa di simile…

Da bravo cittadino (e da ipocondriaco del volo maybe) avverto la hostess che avverte lo steward che avverte il comandante che è un belga di due metri e dieci con sguardo bovino il quale si siede al mio fianco e osserva in silenzio, è un sollievo sentire che il suo fiato (anch’esso bovino) per lo meno non puzza di alcool.

Con una amorevole pacca sulla spalla, che non dimenticherò facilmente, mi ringrazia e mi assicura che risolverà il problema, i passeggeri mi guardano come se fossi l’eroe della domenica, un momento di gloria non lo si nega a nessuno…

Sopraggiungono in tempi ragionevolmente brevi a bordo di un piccolo furgone due tecnici avvolti in giubbini arancioni identici a quello che tengo nel cruscotto della mia macchina. il primo si dirige verso il comandante con aria seriosa e inizia ad indicare l’ala gesticolando, mentre il secondo punta deciso verso la ossigenatissima hostess con cui si fermerà a ridere e scherzare fino alla fine dell’operazione.

Il tecnico serio intanto si dà da fare: bisogna raggiungere la cima dell’ala e in pochi secondi è già riuscito a impadronirsi di un montacarichi per imbarcare i bagagli, lo parcheggia a fianco dell’aereo e si avvia verso il furgone per prendere la borsa degli attrezzi.

La “borsa degli attrezzi” consiste in un marsupio di quelli che andavano di moda qui tanti anni fa, di uno splendido colore lilla e laccetto giallo, dentro, a quanto posso vedere dal finestrino, c’è spazio anche per il suo personale pacchetto di sigarette.

Dopo pochi secondi il suo piano d’azione è chiaro a tutti: staccare la parte svolazzante e (spero) sostituirla.

L’impresa è più ostica del previsto…il pezzo distaccato risulta essere di una lamiera resistentissima che non vuol lasciarsi tagliare dagli attrezzi specialissimi del tecnico (un cutter e una forbice) breve istante di riflessione del tipo che armeggia con la sua ricetrasmittente; un paio di minuti più tardi giunge un secondo furgone con l’attrezzo giusto per l’occasione: un enorme martello da muratore.

Dopo una serie interminabile di martellate sui flaps dell’ala anche la lamiera belga, notoriamente resistente si spezza fra le mani del nostro tecnico che scende felice del suo lavoro e balza sul secondo furgoncino mentre l’altro autista continua a provarci con la hostess.

Dopo poco eccolo di ritorno con il pezzo di ricambio e il solito marsupio, il pezzo però non mi sembra quello giusto: dev’essere una lamiera metallica ma invece che un foglio piatto è di forma cilindrica (??) scopro presto con una lieve inquietudine che si tratta di una sorta di domo pack, tipo quello che si usa per impacchettare il cibo; il fatto che sia adesivo mi rincuora un po: già temevo di veder spuntare dalla leggendaria borsina un rotolo di scotch o colla vinavil…

A questo punto è un gioco da ragazzi, per non sbagliare ne applica una quantità enorme, risultato: la nostra ala prima bianca e scintillante è diventata un patchwork astratto di toppe color alluminio; un perfetto aereo africano; il tecnico ripone tutto, l’autista saluta a malincuore la sua preda strappandole due baci sulla guancia e dopo poco si decolla di nuovo.

Non so se sia merito delle toppe, del pilota, o del clima ma il temuto atterraggio a Freetown è di gran lunga il migliore che mi sia mai capitato di fare…