mercoledì 10 settembre 2008

Susan bay




Susan bay doveva essere un piccolo paradiso quando Freetown non era altro che un piccolo villaggio di schiavi liberati, la foce di un piccolo torrente che si getta nel mare fra due promontori coperti di palme e verdi alberi di mango, oggi una distesa di lamiere arrugginite arriva a lambire il mare, cento, o forse duecentomila persone ammassate in un area di meno di un kilometro quadrato, la densità di un quartiere di tokyo dove i palazzi hanno trenta piani.
E’ per questo che l’unica cosa a cui riesco a pensare mentre scendo la ripida scala di pietra che porta alla baraccopoli è l’ingresso dell’inferno di Dante.
Non ci sono strade a Susan bay, solo un labirinto di minuscoli spazi fra una baracca e l’altra, il quartiere, come Venezia galleggia sul mare ma invece che su pali di cedri del libano si poggia su cumuli di rifiuti.
Le ultime pan-body, come chiamano qui le case in lamiera e teli di plastica si affacciano sul mare, o meglio, si affaccerebbero sul mare se una montagna di rifiuti di quattro o cinque metri non ne impedisse la vista.
Li chiamano i moli, sono i nuovi appezzamenti strappati al mare, sono costituiti da grandi gabbie di legno in cui vengono ammassati sempre nuovi rifiuti, lì attraccano le grandi barche con cui gli abitanti sono soliti trasportare carbone, legno, frutta e ortaggi da vendere nei mercati di Freetown, lì sopra giocano frotte di bambini, lì pascolano placidi alcuni maiali.
Tutto il quartiere, la sua economia, la sua vita sociale, le sue stesse fondamenta poggiano sui rifiuti e sono i cumuli di rifiuti che impediscono alle mareggiate e alle alte maree di inondare le case.
alcuni uomini scaricano sacchi di riso da una barca, Dei bambini giocano con un pallone di stracci, due donne ridono pettinandosi a vicenda, Forse questo è il luogo peggiore che io abbia mai incontrato, forse questo è il luogo più vitale e gioiosamente controverso che io abbia mai incontrato…

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